jueves, 24 de diciembre de 2009

El Papa recuerda la experiencia de Greccio.

En este tiempo de Navidad, el Papa recuerda la persona de San Francisco como el hombre que vivió en su corazón y en todo su ser la experiencia de Dios hecho hombre.

Il Papa: il mistero del Natale si apre a un cuore di bambino


In occasione della tradizionale Udienza generale del mercoledì
Per capire e lasciarsi incantare dal mistero del Natale, di questo Dio incarnatosi per conquistarci con il suo amore, occorre ritrovare un cuore di bambino. E' questo in sitensi quanto ha detto Benedetto XVI durante l'Udienza generale, nell'Aula Paolo VI, dedicata alla prossima festa della Natività.
In un clima gioioso caratterizzato dalle melodie natalizie eseguite da un gruppo di zampognari, il Papa ha ricordato l’antica tradizione del presepe risalente a San Francesco d’Assisi che fu il primo a dar vita a Greccio, in Umbria, il 25 dicembre del 1223 a una rappresentazione viva della nascita di Gesù.
“La notte di Greccio – ha detto il Santo Padre – ha ridonato alla cristianità l’intensità e la bellezza della festa del Natale, e ha educato il Popolo di Dio a coglierne il messaggio più autentico, il particolare calore, e ad amare ed adorare l’umanità di Cristo”.
“Con san Francesco e il suo presepe venivano messi in evidenza l’amore inerme di Dio, la sua umiltà e la sua benignità, che nell’Incarnazione del Verbo si manifesta agli uomini per insegnare un nuovo modo di vivere e di amare”, ha ricordato.
Il Papa ha poi spiegato che il 25 dicembre come data della Natività risale al 204 circa e si deve a Ippolito di Roma, mentre la celebrazione del Natale si afferma in una “forma definita” più tardi, nel IV secolo, quando prende il posto della festa pagana del “Sol invictus”, il sole invincibile.
Col Natale “si mise così in evidenza che la nascita di Cristo è la vittoria della vera luce sulle tenebre del male e del peccato”.
Fu però grazie a San Francesco, ha proseguito Benedetto XVI, che “il popolo cristiano ha potuto percepire che a Natale Dio è davvero diventato l’ 'Emmanuele’, il Dio-con-noi, dal quale non ci separa alcuna barriera e alcuna lontananza”.
In quel Bambino, si è manifestata la condizione “povera e disarmante” di Dio-Amore, di un Dio che “viene senza armi, senza la forza, perché non intende conquistare, per così dire, dall’esterno, ma intende piuttosto essere accolto dall’uomo nella libertà”; di un Dio che “si fa Bambino inerme per vincere la superbia, la violenza, la brama di possesso dell’uomo”.
Tuttavia, ha spiegato, per “incontrare Dio e godere della Sua presenza”, occorre diventare come bambini.
“Chi non accoglie Gesù con cuore di bambino, non può entrare nel regno dei cieli: questo è quanto Francesco ha voluto ricordare alla cristianità del suo tempo e di tutti tempi, fino ad oggi”.
“Preghiamo il Padre perché conceda al nostro cuore quella semplicità che riconosce nel Bambino il Signore, proprio come fece Francesco a Greccio”, ha quindi concluso.
Infine, nei saluti ai pellegrini di lingua italiana al termine dell'udienza, Benedetto XVI ha espresso un ultimo augurio: “Possa l'amore, che Dio manifesta all'umanità nella nascita di Cristo, accrescere in voi, cari giovani, il desiderio di servire generosamente i fratelli. Sia per voi, cari malati, fonte di conforto e di serenità. Ispiri voi, cari sposi novelli, a consolidare la vostra promessa di amore e di reciproca fedeltà”.

Un sguardo differente all'umanità-


La dignità umana vista da cristiani, ebrei e musulmani

27 leader delle tre religioni monoteiste riuniti a Siviglia
Un seminario di riferimento sulle “Implicazioni della dignità umana per le tre tradizioni monoteiste” ha riunito a Siviglia (Spagna) 27 leader cristiani, ebrei e musulmani. Organizzato dalla Fondazione Tre Culture del Mediterraneo, ha contato sulla partecipazione dei Cardinali Kasper e Tauran, del Patriarca Fouad Twal e dell'Arcivescovo di Siviglia, monsignor Juan José Asenjo.
I partecipanti all'incontro, che si è svolto il 9 e il 10 dicembre, sono stati designati dalla Santa Sede, dal Patriarcato Ecumenico, dal Comitato Ebraico Internazionale per le Consultazioni Interreligiose e dalla Lega Musulmana Mondiale.
Anche se queste entità mantengono importanti relazioni e dialoghi con varie comunità religiose, spiega un comunicato dei partecipanti, è la prima volta che hanno scelto di unirsi per promuovere l'intesa interreligiosa. I partecipanti provenivano dall'Europa, dal Medio Oriente e dall'America settentrionale e meridionale.
L'incontro è iniziato con il benvenuto e i discorsi di Elvira Saint-Gerons, direttrice della Fondazione Tre Culture; Miguel Lucena, segretario generale dell'Azione Estera della Giunta dell'Andalusia; del Cardinale Walter Kasper, presidente della Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo; del Cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso; del rabbino Richard Marker, presidente del Comitato Ebraico Internazionale per le Consultazioni Interreligiose; del metropolita di Francia Emmanuel Adamakis del Patriarcato Ecumenico; del dottor Saud Bin Abdullah Al-Ghedayan, direttore del Centro Culturale Islamico di Madrid; di monsignor Juan José Asenjo, Arcivescovo di Siviglia.
Le presentazioni del tema della conferenza sono state affidate al rabbino professor Daniel Sperber, al dottor Saud Bin Abdullah Al-Gedayan e a padre José Ramón Echeverría.
Nel suo intervento, il Cardinale Kasper ha detto che “se vogliamo evitare conflitti dobbiamo fare appello al dialogo: è la condizione per la sopravvivenza della razza umana visto che i tempi sono cambiati e le religioni non possono vivere in modo indipendente, ma devono convivere le une con le altre”.
Dal canto suo, Richard Marker ha chiesto di riconoscere la dignità dell'altro. “E' un modo per generare empatia verso di lui e promuovere in questo modo la via verso la pace”.
Il dialogo deve tuttavia compiere un altro passo, ha ricordato Emmanuel Adamakis: “Deve andare verso la giustizia sociale, il rispetto dei diritti umani e il conseguimento della pace senza eccezioni”.
Questo perché, ha affermato Saud Bin Abdullah, “la dignità umana non si realizza se non ci sono un riconoscimento e una garanzia della libertà e dei diritti della persona”.
Monsignor Asenjo ha ricordato che l'Arcidiocesi di Siviglia, nel campo dell'ecumenismo e del dialogo interreligioso, “cerca di mantenere relazioni non solo corrette, ma anche fraterne e cordiali con altre Chiese o comunità ecclesiali, ad alcune delle quali, soprattutto quelle che provengono dalla tradizione ortodossa, si offrono luoghi per celebrare la divina liturgia”.
“Allo stesso tempo, cerchiamo di mantenere relazioni fraterne con ebrei e musulmani, consapevoli dell'elemento comune che ci unisce come credenti”, ha aggiunto.
I partecipanti hanno lavorato in laboratori, approfondendo i temi “La Santità della vita: assoluta o qualificata?”, “Riconciliando la responsabilità individuale e comune” e “Diritti umani e libertà di religione”.
Le discussioni, dice il comunicato dei partecipanti, si sono sviluppate “in uno spirito di rispetto e amicizia reciproci centrati sui principi di base delle tre tradizioni circa l'inalienabile e divinamente concessa dignità di ogni essere umano. In base a questo, i dibattiti sono stati dedicati al ruolo adeguato e alla responsabilità della religione e dei leader religiosi nel loro rapporto con la società secolare e con Governi di ogni tipo”.
I partecipanti hanno affermato l'indispensabilità di questo tipo di dialoghi, e basandosi su queste interazioni costruttive e positive si sono impegnati “a portare indietro nelle rispettive comunità i messaggi di queste decisioni, ascritti a un mandato, condivisi dalle tre tradizioni monoteiste, per apprezzare il valore infinito, la dignità e diritti di tutta l'umanità”.


jueves, 19 de noviembre de 2009

La vocazione dell'uomo


Una declaración sobre el hombre desde la Doctrina social de la Iglesia. Dando a conocer que el ser humano es el punto central del querer de Dios.


La vocazione dell’uomo secondo la dottrina sociale della Chiesa


MUMBAI, sabato, 28 marzo 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso preparato da mons. Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, per un convegno organizzato a Mumbai, dal 13 al15 marzo scorso, dalla Conferenza Episcopale Indiana.


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Leone XIII affermava che «Non c’è vera soluzione della questione sociale fuori del Vangelo» e Giovanni Paolo II ha ripreso questa verità nella Centesimus annus[1]. Ciò non significa che il Vangelo contenga soluzioni empiriche e tecniche delle questioni sociali, come il Magistero ha più volte chiarito. Significa, però, che chiudendo il riferimento a Dio, come ammonisce Benedetto XVI, «i conti non tornano. I conti sull’uomo, senza Dio, non tornano, e i conti sul mondo, su tutto l’universo, senza di Lui non tornano»[2]. Non tornano perché l’uomo è vocazione e quando viene messa a tacere tale chiamata egli si aliena da se stesso. Ma cosa intendiamo dire affermando che l’uomo è vocazione?
Giovanni Paolo II ha scritto che «È nella risposta all’appello di Dio, contenuto nell’essere delle cose, che l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità. Ogni uomo deve dare questa risposta, nella quale consiste il culmine della sua umanità, e nessun meccanismo sociale o soggetto collettivo può sostituirlo»[3]. L’identità non è qualcosa che possiamo darci da soli, né come individui né come popoli. L’identità personale nasce sempre da una chiamata, da una vocazione. L’amore ci costituisce e ci fa scoprire il nostro valore: se non siamo cercati né amati come potremmo pensare di essere qualcosa e di valere qualcosa? Il nostro stesso essere rappresenta per noi una chiamata: non ce lo siamo dati da soli. Non abbiamo deciso noi né di essere, né che tipo di uomo essere. Lo stesso vale per i popoli e le culture: «Al centro di ogni cultura sta l’atteggiamento che l’uomo assume davanti al mistero più grande: il mistero di Dio»[4]. Dato che esiste una natura umana che trascende le culture e le convoca chiamandole, le culture possono costituirsi e dialogare tra loro nella verità.
La chiamata delle chiamate è però quella di Dio. Dio ci chiama amandoci perché Dio è amore[5]: con la creazione - «Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi» (Sal 139 (138),16) - e con la Sua incarnazione, morte e resurrezione in Gesù Cristo. È dalla risposta a questo appello, afferma Giovanni Paolo II, che si costituiscono le persone e le comunità. Da questa risposta nasce anche l’assunzione di responsabilità, perché non si tratta della vocazione dell’Irrazionale, ma della Verità e del Bene. Da qui nascono la soggettività, il protagonismo, la partecipazione. Senza Dio non c’è responsabilità davanti al bene e al male[6] e l’uomo cade vittima di ciechi meccanismi. Oggi, quando la tecnica pone nelle nostre mani possibilità inaudite, la carenza di responsabilità dovuta all’allontanamento di Dio dalla sfera pubblica suscita molte preoccupazioni[7].
La vocazione – la chiamata – costituisce quindi la persona umana. Essa si esprime a diversi livelli o piani: l’essere è una chiamata, l’ordine presente nell’essere è una chiamata, la verità e il bene che esprimono l’essere sono una chiamata, l’essere personale ossia la nostra natura di esseri umani è una chiamata; la nostra identità sessuale di maschio e di femmina è una chiamata perché non ci sono altri modi di essere pienamente persona umana se non come maschio e come femmina; la famiglia e la comunità in cui siamo cresciuti sono una chiamata; la cultura di cui ci siamo nutriti è una chiamata; il lavoro è una chiamata. Tutto ciò che è non è a caso. Tutto ciò che è viene posto nelle nostre mani come un compito. Tutto ciò che è ci chiede di essere perfezionato secondo l’ordine suo proprio. La nostra libertà si nutre di questa vocazione e si esercita in modo veramente umano quando vi risponde, non quando la nega. L’uomo è vocazione e risposta; è libertà nella verità. Se tutto è chiamata, chiediamoci, perché lo è? Qual è il fondamento ultimo della vocazione? Tale fondamento è Dio. Senza Dio non esiste vocazione.
L’uomo senza vocazione è l’uomo alienato. Rileggiamo quanto scriveva Giovanni Paolo II nella Centesimus annus: «È alienato l’uomo che rifiuta di trascendere se stesso e di vivere l’esperienza del dono di sé e della formazione di un’autentica comunità umana, orientata al suo destino ultimo che è Dio. È alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione di questo dono e il costituirsi di una solidarietà interumana»[8]. Questo bellissimo passo esprime tutta l’importanza della vocazione per l’uomo e per la società. Esprime tutta l’importanza di Dio. La vocazione senza trascendenza è impossibile, perché l’uomo non si chiama da solo; egli è chiamato. In principio era il Verbo, la Parola, la Chiamata. Ora, la Chiamata introduce nel mondo la gratuità e il dono. L’uomo che rifiuta la chiamata, il famoso “stolto” che non crede in Dio di cui parla il Salmista, non riesce a riscontrare nella vita un senso, ma solo caso o necessità e non sa perché debba donare gratuitamente agli altri. Senza dono e gratuità non c’è “solidarietà interumana” e la società degli uomini si avvita su se stessa. L’alienazione è la tentazione dell’uomo di vivere la libertà senza la verità. È il disperato tentativo di poter essere se stessi senza una vocazione.

L’uguaglianza dei membri della famiglia umana
Il cristianesimo ha una sua propria parola da dire sulla comunità degli uomini ovvero sugli uomini come comunità? Non diciamo sugli uomini “in” comunità, che potrebbe anche indicare una semplice relazionalità accidentale ed estrinseca. Diciamo sugli uomini “come” comunità, laddove la parola “comunità” assume un significato sostanziale per l’essere umano. In altre parole ci riferiamo qui alla cosiddetta “unità del genere umano”, ossia a quella dinamica particolare-universale che lega un uomo a tutti gli altri, il tutto della persona al tutto dell’intera comunità umana.
Che cosa introduce di nuovo la Rivelazione di Dio rispetto alla dignità della persona umana? In che cosa consiste il principale messaggio di novità? Si tratta, a mio avviso, dell’irruzione nella storia della prospettiva trascendente, di «un punto di vista esterno al mondo»[9]. È la Vocazione divina che desta la consapevolezza della assoluta dignità della persona e, parallelamente, mostra l’unità del genere umano agli occhi di Dio. Un assoluto è tale solo se gode di un fondamento trascendente; la persona può avere una dignità assoluta solo se è fondata da un Altro e su un Altro; ciò che è assoluto non può esser contenuto in limiti politici. Ecco allora che la persona erompe e l’orizzonte dell’umano si fa più vasto dell’orizzonte del cittadino. Da questo momento in poi la comunità politica particolare si scoprirà a servizio della persona e, cosa ancora più importante, a servizio di “ogni” persona e non solo dei suoi concittadini. Precedente la comunità politica e più ampia di essa è la comunità umana. Il principio inserito dal cristianesimo nel solco della storia che potremmo esprimere con le parole di Giovanni Paolo II: «C’è qualcosa di dovuto all’uomo in quanto uomo»[10] è ben lontano dall’essere rispettato anche ai nostri giorni, quando gli Stati faticano a rendersi conto dei loro doveri nei confronti di chi, pur non essendo loro cittadino, è pur sempre uomo[11].
La fulgida visione della trascendente dignità della persona umana comporta simultaneamente la dilatazione della comunità degli uomini fino agli estremi orizzonti; nessuna comunità politica particolare può risolvere in sé l’essere persona. Questa, infatti, sporge oltre ogni comunità particolare. Ogni abbassamento del livello di comprensione della dignità della persona comporta una restrizione di campo dell’universalità della comunità umana e viceversa.
Nella Rivelazione questa consapevolezza è chiara fin dal primo momento – l’uomo Imago Dei del libro della Genesi - ma conosce un crescente approfondimento che culmina in Cristo. Nel Vecchio Testamento si sviluppa un duplice processo di maturazione sia personale sia comunitaria e le due dimensioni sono strettamente intrecciate tra loro. La fede biblica comporta un rapporto personale e personalizzante con Dio, sia come persone sia come popolo. Dio interloquisce con l’uomo inserito in un popolo, lo richiama, lo educa, lo esorta, lo punisce, lo guida, lo libera. Con l’uomo come comunità Dio ha stabilito un’alleanza (cf. Gen 12-15), un rapporto d’amore di tipo sponsale che Isaia esprime in linguaggio lirico: «Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (Is 62,5). È un’alleanza che si nutre di culto e di preghiera, di contemplazione e di azione. Ma è con l’incarnazione del Verbo, con la morte e resurrezione di Cristo che si compie nel modo più pieno l’unità del genere umano, dato che Cristo si è unito in certo qual modo a tutti gli uomini. Da allora «non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché voi tutti siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28). La preghiera di Gesù «che tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21) è già in Lui una realtà, ma percorre anche tutta la storia come impegno e profezia. Di questa unità la Chiesa è sacramento, ossia segno e strumento. La comunità cristiana indica continuamente all’umanità intera la sua vocazione a essere famiglia dei figli di Dio. La Costituzione pastorale Gaudium et spes, al numero 32, ha descritto in modo forse insuperato tale vocazione dell’uomo alla fratellanza universale.

La libertà religiosa fonte e sintesi dei diritti umani
È nella risposta alla vocazione divina che l’uomo scopre la sua dignità e la sua appartenenza alla famiglia dei popoli. Nasce qui il diritto alla libertà religiosa, da intendersi quindi come la sintesi – secondo le parole della Centesimus annus [12] - di tutti gli altri diritti umani. La risposta alla vocazione, per essere esercitata in modo libero e quindi pienamente umano, non deve venire limitata, deve potersi espandere fino al Fondamento ultimo, a Dio. Ecco perché il diritto alla libertà di religione è, in fondo, il diritto della persona umana a vivere attingendo ad un Senso trascendente e assoluto le ragioni dell’esistenza. Ammettere e rispettare la libertà religiosa vuol dire, quindi, riconoscere nell’uomo questo bisogno come a lui connaturato. Non si tratta solo di riconoscere un diritto soggettivo, ma implica anche il «riconoscimento della dimensione religiosa dell’uomo»[13]. La persona umana può coltivare e sviluppare questa sua dimensione religiosa, come può anche liberamente sopirla, trascurarla e perfino negarla, ma essa c’è in tutti, perché fa parte della natura umana. Se la ricerca della verità rende l’uomo degno di stima e di rispetto, la ricerca della verità religiosa, in quanto ricerca del Fondamento ultimo, «esprime le aspirazioni più profonde della persona umana […], offre, in fondo, la risposta alla questione del vero significato dell’esistenza sia personale che sociale»[14] e quindi è il nucleo più profondo della dignità umana. Riconoscendo nella persona l’aspirazione al Fondamento trascendente come sua propria dimensione naturale si capisce anche che «la verità della persona umana è un valore trascendente»[15]. Ecco perché il diritto alla libertà religiosa è «il cuore stesso dei diritti umani»[16]: ne preserva l’origine trascendente e quindi motiva la loro inviolabilità. I diritti umani hanno bisogno di essere fondati su una dimensione superiore a quella politica. La libertà di religione è la libertà di fondare i diritti umani in modo assoluto[17]. Per questo essa è a vantaggio di tutti, e non solo dei credenti. È un bisogno non solo “confessionale”, ma umano e sociale. La libertà di religione si rivela essere un diritto non solo individuale ma comunitario, un elemento del bene comune da preservare e sviluppare. Essa infatti contribuisce a liberare i diritti umani dai limiti del potere politico e a collocarli in una ambito di inviolabilità, a garanzia di tutti i cittadini di una comunità. La libertà di religione svela l’esistenza di una comunità più ampia della stessa comunità politica di uno Stato: la comunità umana. Si tratta di una “appartenenza” precedente a quella politica, che esprime nella libera adesione della coscienza personale una dignità inviolabile per ogni regime politico.
Due osservazioni ulteriori possono confermare l’importanza della libertà religiosa per i diritti umani. Se analizziamo la questione dal punto di vista storico, osserviamo che il diritto alla libertà di religione è stato concepito per primo e, seppure con modalità tortuose e difficili, è stato alla base di tutti gli altri diritti. A questa osservazione storica se ne può aggiungere un’altra, che nasce da una comune esperienza: quando un regime politico nega la libertà di religione finisce per negare anche tutte le altre libertà. I totalitarismi, infatti, hanno prima di tutto tentato di «sradicare il bisogno di Dio dal cuore dell’uomo»[18].

La persona e l’armonia del creato
Anche la natura è vocazione; nel rapporto con il creato l’uomo matura la propria identità e la propria responsabilità. Sulla natura l’insegnamento della Chiesa getta la luce della rivelazione, ossia, come afferma la Tertio millennio adveniente, la luce della creazione e la luce escatologica della redenzione. La natura è per l’uomo e l’uomo è per Dio.
Il magistero della Chiesa, quindi, non avalla né l’assolutizzazione della natura, né la sua riduzione a mero strumento; ne fa invece teatro culturale e morale nel quale l’uomo gioca la propria responsabilità davanti agli altri uomini, comprese le generazioni future, e davanti a Dio. Questo significa che la natura, biologicamente e naturalisticamente intesa, non è un assoluto, ma una ricchezza posta nelle mani responsabili e prudenti dell’uomo[19]. Significa anche che l’uomo ha una indiscussa superiorità sul creato e, in virtù del suo essere persona dotata di un’anima immortale, non può venire equiparato agli altri esseri viventi, né tanto meno considerato elemento di disturbo dell’equilibrio ecologico naturalistico. Significa, infine, che la natura così come non è tutto non è nemmeno niente e l’uomo non ha un diritto assoluto su di essa, ma un mandato di conservazione e di sviluppo in una logica di universale destinazione dei beni della terra.
Esistono molte forme, oggi, di idolatria della natura che perde di vista l’uomo. Essa emerge, per esempio, quando si sostiene che l’aumento della popolazione sarebbe tale da far collassare gli equilibri naturali del pianeta e impedire lo sviluppo. Queste tesi sono state ormai confutate [20]e, per fortuna, sono in regressione. Nel contempo, però, gli stessi che sostenevano questa visione malthusiana, proponevano strumenti tutt’altro che naturali per frenare l’aumento demografico, come il ricorso all’aborto e alla sterilizzazione di massa.
La Chiesa ha fiducia nell’uomo e nella sua capacità sempre nuova di cercare soluzioni ai problemi che la storia gli pone. Capacità che gli permette di confutare le ricorrenti previsioni catastrofiche[21] . La Chiesa sa anche però che l’agire umano nei confronti della natura deve essere eticamente orientato. La Evangelium vitae ci dice che questo orientamento era già esistente fin dall’inizio con la proibizione di mangiare dei frutti dell’albero (cf. Gen 2, 16-17)[22]. Se, infatti, la produzione alimentare è aumentata rispetto alle previsioni e permette quindi di sfamare molte più persone di quanto non si potesse prevedere, è altrettanto vero che la distribuzione del cibo è disuguale e tale da lasciare nella fame una fetta consistente del pianeta, come ha dimostrato la crisi alimentare che tutti abbiamo vissuto nel 2008.
Il problema ecologico va quindi percepito come problema etico. Questo chiede la Chiesa, dato che «esiste una costante interazione tra la persona umana e la natura»[23] . Esistono davanti ai nostri occhi molte prove di questo rapporto complementare tra natura e uomo, tra aspetti materiali e aspetti immateriali del trattamento dell’ambiente. È il caso, per esempio, del rapporto tra povertà e degrado ambientale e, al contrario, del rapporto tra supersviluppo e distruzione degli equilibri ambientali. Forme di degrado ambientale, quali per esempio la desertificazione, sono frutto della povertà, ma la povertà non è un dato naturale né naturalistico, è un fatto storico e culturale. Come tutti sanno, tra povertà e desertificazione, cioè tra il fatto storico-culturale del mancato sviluppo e il degrado della natura c’è una circolarità per la quale i due elementi si autoalimentano vicendevolmente. Molti sostengono che nei Paesi sviluppati le cose stanno diversamente perché ci sono maggiori risorse da dedicare all’ambiente. Questo è vero, però anche la moderna civiltà dei consumi provoca profondi squilibri, per esempio nel clima.
Per significare questa complementarità sempre più evidente tra ambiente naturale e mondo dell’uomo, tra aspetti materiali e immateriali dello sviluppo, tra ecologia da un lato e cultura ed etica umane dall’altro, Giovanni Paolo II ha felicemente adoperato l’espressione «ecologia umana»[24]. Dio – egli scrive – non solo ha dato all’uomo la terra, ma gli ha anche dato l’uomo stesso. Egli deve quindi rispettare non solo la natura mediante una “ecologia naturale”, ma anche la degna vita morale dell’uomo mediante una “ecologia umana”. Se non si rispetta la natura ne deriveranno dei danni anche per la società: un quartiere urbano degradato provoca anche disagio sociale; contemporaneamente, se non si rispetta l’ecologia dei rapporti umani e sociali ne risulterà deturpato anche l’ambiente.
Il problema ambientale è un problema antropologico: «Alla radice dell’insensata distruzione dell’ambiente naturale c’è un errore antropologico, purtroppo diffuso nel nostro tempo. L’uomo, che scopre la sua capacità di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo col proprio lavoro, dimentica che questo si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio. Egli pensa di poter usare arbitrariamente la terra […]Invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore nell’opera della creazione, l’uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura, piuttosto tiranneggiata che governata da lui»[25].
Quella ecologica non è solo un’emergenza naturale, è anche un’emergenza antropologica. Il modo di rapportarsi al mondo dipende dal modo di rapportarsi dell’uomo con se stesso; il passo della Centesimus annus riportato qui sopra ci sollecita anche ad aggiungere che il modo con cui l’uomo guarda dentro se stesso dipende da come si rivolge a Dio. L’errore antropologico è, a sua volta, un errore teologico. Quando l’uomo vuole porsi al posto di Dio, come dice l’enciclica, perde di vista anche se stesso e la sua responsabilità di governo della natura.
Dottrina sociale della Chiesa ed esercizio della carità
Vediamo infine un’ultima dimensione, quella decisiva, della vocazione cristiana della persona umana. Mi riferisco alla vocazione alla carità, nel suo rapporto con la giustizia.
Se consideriamo i paragrafi 19-29 della Deus Caritas est, notiamo che tra giustizia e carità il Papa non separa, ma distingue per unire. La giustizia non è la carità, eppure ha bisogno della carità per essere vera giustizia. Ambedue le dimensioni vanno tenute insieme. La giustizia non è la carità, e infatti «Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore»[26]. La giustizia, però, ha bisogno della carità perché altrimenti non riesce a purificarsi «dal prevalere dell’interesse e del potere che l’abbagliano» [27].
Nel paragrafo 29 della Deus caritas est, Benedetto XVI distingue tra “l’impegno per un giusto ordinamento dello Stato” e l’ “attività caritativa organizzata”. Nei confronti della prima dimensione la Chiesa agisce indirettamente, nei confronti della seconda, invece, direttamente o, meglio «come soggetto direttamente responsabile»[28]. Con ciò il Papa non vuol dire in alcun modo che qualcuno dei due livelli non abbia a che fare con la carità. Tutti e due ne sono unitariamente pervasi pur nella distinzione. Il Papa, infatti, dice che «la carità deve animare l’intera esistenza dei fedeli laici»[29], di coloro cioè che si impegnano direttamente nella prima delle dimensioni viste qui sopra.
Afferma la Centesimus annus: «Per la Chiesa insegnare e diffondere la dottrina sociale appartiene alla sua missione evangelizzatrice e fa parte essenziale del messaggio cristiano, perché tale dottrina ne propone le dirette conseguenze nella vita della società ed inquadra il lavoro quotidiano e le lotte per la giustizia nella testimonianza a Cristo Salvatore»[30]. La Dottrina sociale della Chiesa «annuncia Dio ed il mistero di salvezza in Cristo ad ogni uomo»[31] e per questo essa si radica nel Cristo annunciato dalla fede apostolica e da lì cerca di illuminare il cammino di salvezza dell’umanità, anche nei suoi elementi di promozione umana e di lotta per la giustizia. Possiamo quindi dire che «La Dottrina sociale viene organicamente collegata con la carità che, come virtù teologale, è la stessa vita divina che nutre la Chiesa in servizio al mondo, e come virtù umana è quell’amicizia sociale senza di cui i legami comunitari tra gli uomini si indeboliscono e vacillano»[32]
Nella Deus caritas est Benedetto XVI insegna che la Dottrina sociale della Chiesa è proprio espressione della purificazione della ragione ad opera della fede o della giustizia ad opera della carità e quindi le assegna questo compito: illuminare l’impegno per l’uomo dei cristiani e di tutti gli uomini di buona volontà con la luce di Cristo. Si può ritenere, osserva il Papa, che la giustizia non abbia bisogno della carità e che anzi essa possa più facilmente essere raggiunta mediante il razionale funzionamento delle strutture e delle istituzioni piuttosto che tramite la virtù di uomini caritatevoli. Così, però, non è né può essere. La giustizia non riesce ad essere veramente se stessa senza la carità, che sola può indurre al sacrificio e al perdono.
A coloro che si impegnano per la giustizia la Dottrina sociale della Chiesa indubbiamente fornisce la luce dei suoi principi e delle sue direttive di azione. Oltre a dare la luce dei suoi concetti – da quello del bene comune a quello della destinazione universale dei beni – la Dottrina sociale della Chiesa svolge questo lavoro di “purificazione” e, in quanto annuncio di Cristo, sempre richiama l’operatore di giustizia e di pace, alle autentiche radici – cristologiche ed ecclesiali - del suo impegno per la carità e nella carità.

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[1] Cf. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, n. 5.
[2] Benedetto XVI, Omelia alla spianata dell’Islinger Feld a Regensburg, 12 settembre 2006, in Benedetto XVI, Chi crede non è mai solo. Viaggio in Baviera, tutte le parole del Papa, Cantagalli, Siena 2006, p. 46.
[3] Giovanni Paolo II, Lett. enc Centesimus annus, n. 13.
[4] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, n. 24.
[5] Cf. Benedetto XVI, Deus caritas est. Tutta l’enciclica può essere letta come l’annuncio di una chiamata e il suo gioioso accoglimento.
[6] Cf. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus , n. 13.
[7] Cf J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli, Siena 2005, p. 50.
[8] Lett. enc. Centesimus annus, 41; cf. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa cit., n. 116.
[9] R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1993.
[10] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, n. 34.
[11] È condivisibile l’affermazione di uno studioso contemporaneo: «Gli Stati non hanno soltanto dei diritti reciproci ma hanno anche dei doveri, e direi esclusivamente doveri nei confronti dei cittadini, e non soltanto dei propri, ma di tutti, cioè del genere umano» (L. Bonanate, Etica e politica internazionale, Einaudi, Torino 1992, p. 20). Infatti «Non può essere il cielo sotto cui si è nati a modificare le caratteristiche delle persone umane» (Ivi, p. 22).
[12] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, n. 47: «Fonte e sintesi di questi diritti è, in un certo senso, la libertà religiosa, intesa come diritto a vivere nella verità della propria fede ed in conformità alla trascendente dignità della propria persona».
[13] Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale Christifideles laici, n. 39.
[14] Giovanni Paolo II, Nel rispetto dei diritti umani il segreto della pace vera, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 1999, n. 5.
[15] Ivi, n. 49.
[16] Ivi, n. 5.
[17] La ha di recente ribadito Benedetto XVI nel Discorso all’Assemblea delle Nazioni Unite del 18 aprile 2008: «Tali diritti sono basati e modellati sulla natura trascendente della persona […]. Il riconoscimento di questa dimensione va rafforzato se vogliamo sostenere la speranza dell’umanità in un mondo migliore».
[18] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, n. 24.
[19] Gen 9,1-3: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra. Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere. Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe».
[20] Cf per esempio: G-F. Dumont, Il fenomeno demografico e le politiche di controllo della popolazione, in Pontificia Accademia per la vita, Commento interdisciplinare alla “Evangelium vitae”, direzione e coordinamento di R. Lucas L.C., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997, pp. 549-572.
[21] Department of Economic and Social Affairs, Population Division, Population, Environment an Development-The Concise Report, United Nations, New York 2001. Questo rapporto mostra come le previsioni catastrofiche relative alla quantità di popolazione nel 2050, ai livelli di vita e all’esaurimento delle risorse energetiche non rinnovabili abbiano peccato di eccessivo pessimismo antropologico.
[22] Cf. Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 25 marzo 1995, n. 42.
[23] Giovanni Paolo II, Messaggio per la giornata mondiale della pace-1° gennaio 1999, n. 10, supplemento a «L’Osservatore Romano», mercoledì 16 dicembre 1998, p. III.
[24] Giovanni Paolo II, Centesimus annus, 30 dicembre 1987, n. 38.
[25] Idem, n. 37.
[26] Benedetto XVI, Lett. enciclica Deus caritas est cit., n. 28.
[27] Ibidem.
[28] Benedetto XVI, Lett. enciclica Deus caritas est cit., n. 29.
[29] Ibidem.
[30] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, n. 5.
[31] Ivi, 54. La Sollicitudo rei socialis diceva: «proclama la verità su Cristo, su se stessa e sull’uomo» (n. 41).
[32] G. Crepaldi, La carità purifica la giustizia, in «L’Osservatore Romano», 13 maggio 2006, p. 4.


miércoles, 18 de noviembre de 2009

Una nueva forma de entender el amor.


Una cosa muy imporante que todos los hombres buscan es el amor. Ante todo, saciar el gran vacio que algunas veces existe en algunas personas, ya sea por diversos motivos.

La primera vez que he leido este artículo me ha llamado la atención, pues ve el amor desde otra perspectiva, de una nueva manera.

Hablamos siempre del amor, sin embargo muy pocos lo han experimentado. Este escrito nos dará un camino nuevo para ver su existencia en todo ser. Buena lectura.



Modo diferente de hablar del amor
2009-11-06


Con frecuencia soy invitado a hablar sobre el amor. Siento cierto reparo, porque esta palabra, amor, es una de las más desgastadas de nuestro lenguaje. Y como fenómeno interpersonal, uno de los más desmoralizados. Para no repetir lo que todo el mundo sabe y escucha, acostumbro a abordar el tema inspirado en uno de los mayores biólogos contemporáneos, el chileno Humberto Maturana. En sus reflexiones, el amor es contemplado como un fenómeno cósmico y biológico. Expliquemos lo que él quiere decir.
El amor se da dentro del dinamismo de la propia evolución, desde sus manifestaciones más primarias, de miles y miles de millones de años atrás, hasta las más complejas en el nivel humano. Veamos cómo el amor entra en el universo.
En el universo se dan dos tipos de acoplamientos (encajes) de los seres con su medio, uno necesario y otro espontáneo. El primero, el necesario, hace que todos los seres estén conectados unos a otros y acoplados a los respectivos ecosistemas, para asegurar su supervivencia. El otro acoplamiento se realiza espontáneamente. Los topquarks -primera densificación de la energía en materia- interactúan sin razones de supervivencia, por puro placer, en el fluir de su vivir. Se trata de encajes dinámicos y recíprocos entre todos los seres, no entre vivos y vivos. No hay justificación para ello. Ocurre porque ocurre. Es un acontecimiento original de la existencia en su pura gratitud. Es como la flor que florece por florecer.
Cuando uno se relaciona con otro (digamos dos protones) y así se crea un campo de relación, surge el amor como fenómeno cósmico. El amor tiende a expandirse y a alcanzar formas cada vez más inter-retro-relacionadas en los seres vivos, especialmente en los humanos. En nuestro nivel es más que simplemente espontáneo como en los demás seres: se hace proyecto de libertad que acoge conscientemente al otro y crea el amor como el más alto valor de la vida.
En esa deriva, surge el amor ampliado que es la socialización. El amor-relación es el fundamento del fenómeno social y no su consecuencia. En otras palabras: es el amor-relación el que da origen a la sociedad; ésta existe porque existe el amor, y no al contrario, como convencionalmente se cree. Si falta el amor-relación (el fundamento) se destruye lo social. Sin el amor, lo social adopta la forma de agregación forzada, de dominación de violencia, viéndose todos obligados a encajarse. Por eso siempre que se destruye el encaje y la congruencia entre los seres, se destruye el amor-relación, y con ello, la sociabilidad. El amor-relación es siempre una apertura al otro y una convivencia y co-munión con el otro.
No fue la lucha por la supervivencia del más fuerte lo que garantizó la persistencia de la vida y de los individuos hasta los días actuales, sino la cooperación y el amor-relación entre ellos. Los ancestros homínidos pasaron a ser humanos en la medica en que más y más compartían entre sí los resultados de la cosecha y de la caza y compartían sus afectos. El propio lenguaje que caracteriza al ser humano surgió en el interior de este dinamismo de amor-relación. La actual crisis se originó, en parte, por la excesiva competición y por la falta de cooperación. Está bien una sociedad con mercado, pero no sólo de mercado.
¿Cómo se caracteriza el amor humano? Responde Maturana: «lo que es especialmente humano en el amor no es el amor, sino lo que hacemos con el amor en cuanto humanos; es nuestra manera particular de vivir juntos como seres sociales en el lenguaje; sin amor nosotros no somos seres sociales.
Como se desprende, el amor es un fenómeno cósmico y biológico. Al llegar al nivel humano, se revela como un proyecto de la libertad, como una gran fuerza de unión, de mutua entrega y de solidaridad. Las personas se unen y recrean por el lenguaje amoroso el sentimiento de benevolencia y de pertenencia a un mismo destino.
Sin el cuidado esencial, el encaje del amor-relación no se da, no se conserva, no se expande, ni permite la consorciación entre los demás seres. Sin el cuidado no hay atmósfera que propicie el florecimiento de aquello que verdaderamente humaniza: el sentimiento profundo, la voluntad de compartir y la búsqueda del amor.
Creo que hablar así del amor tiene sentido, porque nos hace más humanos.

Leonardo Boff


El hombre se pierde a si mismo.

Inserto en el Blog un articulo interesante sobre la vida del hombre que se vuelve esclavo de su propio trabajo, dejando de lado su realizacion como persona humana.
¿Queriendo ser Dios?
2009-10-23
Rose Marie Muraro es una mujer imposible. A pesar de tener grandes limitaciones de vista y de salud escribió 35 libros y editó cerca de otros 1600. Fue pionera del feminismo brasilero. Su estudio sobre la sexualidad de la mujer brasilera, publicado por la Editorial Vozes de Petrópolis, se transformó en un clásico, tanto por su metodología como por las categorías de análisis.
Licenciada en física, siempre se preocupó por la tecnología y su incidencia en el destino humano. Ahora, con el paso de los años y después de muchas investigaciones y de manejar una gran cantidad de fuentes, informaciones y autores, nos entrega un libro-síntesis con el título: Los avances tecnológicos y el futuro de la humanidad: ¿queriendo ser Dios? Es una publicación de la Editorial Vozes de Petrópolis de la cual fue durante 17 años directora editorial.
El subtítulo ¿Queriendo ser Dios? define la perspectiva de su análisis y al mismo tiempo deja traslucir una denuncia contra el tipo de ciencia y tecnología dominantes en la historia. En realidad, hace un excelente rastreo histórico de la tecnología desde los albores de la humanidad, cuando hace más de dos millones de años surgió el homo faber, aquel que por primera vez utilizó el instrumento para imponerse a la naturaleza, pasando por los distintos periodos históricos, con sus respectivas revoluciones hasta llegar a los tiempos contemporáneos de la ingeniería genética, de la robótica, de la nanotecnología y de la biología sintética, para culminar en la fusión entre ser humano y máquina.
A lo largo de su libro Rose nos muestra el calvario de la Tierra y la lenta y progresiva crucificación de la vida y de la naturaleza a través del poder de la tecnociencia, puesta al servicio de la voluntad de poder en su concretización más cruda y cruel en el dinero.
Pero no siempre fue así. Primitivamente el saber y la técnica estaban al servicio de la solidaridad y del compartir, atendiendo a las demandas humanas y aliviando el peso de la vida. Pero desde el momento en que surgió la moneda, que se hizo mediación exclusiva de todos los trueques, y se transformó en mercancía con precio (intereses), se produjo una revolución perversa. Se pasó de la cooperación a la competición, del cuidado a la agresividad. Lo que impera entonces es el gana/pierde y no el gana/gana. La sociedad se ha hecho conflictiva con ejércitos, muchas guerras y grandes mortandades.
Los señores del dinero sujetan a las personas, controlan la sociedad y deciden qué saber y qué técnica hay que desarrollar para reforzar su poder. No se produce para la vida sino para el mercado. No se inventa para la sociedad sino para el lucro.
El actual proyecto de la tecnociencia ha acelerado enormemente la historia. La humanidad ha caminado más en cien años que en los dos millones de años anteriores. Esta velocidad ha aturdido la mente y está generando una verdadera mutación humana, comparable solamente a la ocurrida en la revolución biológica multimilenaria. Algunos científicos intentan introducir nanoparticulas en la corriente sanguínea del cerebro para gestar una inteligencia suprahumana. Surgiría así un híbrido de ser humano y maquina, y la humanidad se bifurcaría entre los mejorados y nos no-mejorados.
Rose Marie Muraro se alza contra este intento, pues él configura la suprema arrogancia y actualiza la antigua tentación bíblica del seréis como Dios.
El ser humano, por más que quiera, jamás superará los límites de su naturaleza. Sólo una ciencia con conciencia servirá a la vida y garantizará el futuro de la Tierra. La autora propugna monedas complementarias, un consumo compasivo y reciclable, una revolución radical de dentro hacia fuera y de abajo hacia arriba, el juego del gana/gana como forma de salir con éxito del berenjenal en el que estamos enredamos. La frase final de su brillante libro es esperanzadora: «Cuando desistamos de ser dioses podremos ser plenamente humanos, algo que todavía no sabemos lo que es, pero que hemos intuido desde siempre».


Leonardo Boff

Leonardo Boff y San Francisco de Asís



Un franciscano de corazón es Leonardo Boff. El espiritu del Poverello le ha impreso en su vida un seño indeleble de humildad y de alegria para con la existencia de cada hombre.


Por tal motivo, les presente un escrito suyo donde reconoce el gran valor que tien San Francisco para el mundo de hoy, pues él sigo vivo, en donde se vive la pobreza y se defiende la injusticia.


Amor franciscano
2007-09-28


¿Alguien hubiera dicho que un hombre que vivió hace más de 800 años vendría a ser referencia fundamental para todos aquellos que buscan un nuevo acuerdo con la naturaleza y sueñan con una confraternización universal? Ese hombre es Francisco de Asís (+1226), proclamado patrono de la ecología. En él encontramos valores que perdimos, como la capacidad de encantarnos ante el esplendor de la naturaleza, la reverencia delante de cada ser, la cortesía con cada persona, el sentimiento de hermandad con cada ser de la creación, con el sol y con la luna, con el lobo feroz y el leproso al que abraza enternecido.
Francisco realizó una síntesis feliz entre la ecología exterior (medio ambiente) y la ecología interior (pacificación interna) hasta el punto de transformarse en el arquetipo de un humanismo tierno y fraterno-sororal, capaz de acoger todas las diferencias. Como afirmó Hermann Hesse: «Francisco casó en su corazón el cielo con la tierra e inflamó con la brasa de la vida eterna nuestro mundo terreno y mortal». La humanidad puede enorgullecerse de haber producido semejante figura histórica y universal. Él es lo nuevo, nosotros somos lo viejo.
La fascinación que ejerció desde su tiempo hasta el día de hoy se debe al rescate que hizo de los derechos del corazón, a la centralidad que confirió al sentimiento y a la ternura que introdujo en las relaciones humanas y cósmicas. No sin razón, en sus escritos la palabra «corazón» aparece 42 veces frente a «inteligencia», una vez; «amor» 23 veces frente a «verdad», 12; y «misericordia» 26 veces frente a «intelecto», sólo una vez.
Era el «hermano-siempre-alegre» como lo apodaban sus cofrades. Por esta razón, deja atrás el cristianismo severo de los penitentes del desierto, el cristianismo litúrgico monacal, el cristianismo hierático y formal de los palacios pontificios y de las curias clericales, el cristianismo sofisticado de la cultura libresca de la teología escolástica. En él emerge un cristianismo de jovialidad y canto, de pasión y danza, de corazón y poesía. Él conservó la inocencia como claridad infantil en la edad adulta que devuelve frescura, pureza y encanto a la penosa existencia en esta tierra. En él las personas no aparecen como «hijos e hijas de la necesidad, sino como hijos e hijas de la alegría» (G. Bachelard). Aquí se encuentra la relevancia innegable del modo de ser del Poverello de Asís para el espíritu ecológico de nuestro tiempo, carente de encantamiento y de magia.
Estando cierta vez un 4 de octubre, fiesta del Santo, en Asís, en esa minúscula ciudad blanca al pie del monte Subasio, celebré el amor franciscano con el siguiente soneto que me atrevo a publicar: Abrazar a cada ser, hacerse hermana y hermano,Oír el cantar del pájaro en la rama,Auscultar en todo un corazónQue palpita en la piedra y hasta en la lama. Saber que todo vale y nada es en vano,Y que se puede amar incluso a quien no ama, Llenarse de ternura y compasiónPor el bichito que por ayuda clama. Conversar hasta con el fiero lobo Y convivir y besar al leproso Y, para alegrar, hacer de bobo, Sentirse de la pobreza el esposo,Y derramar afecto por todo el globo:He aquí el amor franciscano: ¡oh supremo gozo!


Leonardo Boff


Fuente: http://www.servicioskoinonia.org/boff/articulo.php?num=243

Un lobo como pastor.


Hasta dónde puede llegar el poder, hasta dónde. Esta es una pregunta que se han hecho todas las personas del mundo frente a un drama de sufrimiento e injusticia. Esto es común en nuestra sociedad, es el pan de cada dia. Sin embargo, ahora nos preguntamos lo mismo, frente a una situacion muy vergonzosa, que hasta va en contra del mismo Evangelio.
Dónde está la humildad y pobreza que se predica, o es que solo la pabreza e humildad se viven "interiormente". El poder corrompe, cuando entra en toda institucion, ya hemos visto claros ejemplos en la historia y, ahora, lo vemos en nuestra Iglesia Peruana.
Hásta dónde llegará esta ansiedad de poder, creo, que sólo el tiempo lo dirá.
Todo esto, nos debe mover a reflexionar sobre los caminos que está emprendiendo la Iglesia. Mas que preocuparse por el dinero u otras ambiciones, trabajemos, pues hay muchos que sufren, a ejemplo de Cristo que dio la vida por sus ovejas.

Pongo a conocimiento la carta en favor del Padre Arens.


Carta de apoyo al padre Eduardo Arens, S.M.
y de rechazo a la actitud intolerante del cardenal de Lima Juan Luis Cipriani
Por Hugo Cáceres Guinet

La hostilidad que provoca en Mons. Juan Luis Cipriani cualquier situación que escapa de su control o que desafía su limitada comprensión de la realidad peruana y eclesial, es suficientemente conocida como para recurrir a ella y argumentar en favor de mi profesor, amigo y colega Eduardo Arens. Además de sus conocidas rabietas, rociadas de lenguaje grosero que ponen en situación embarazosa a la Iglesia peruana y a sus propios cofrades del Opus Dei, son también ampliamente reconocidas las ambiciones de poder que conducen a Cipriani a actuar de modo arbitrario, arrogante y caprichoso, como lo prueban multitud de sacerdotes y religiosos que se han visto obligados a emigrar de la Arquidiócesis de Lima, porque los ha despojado de casas de retiro y parroquias. Está de más recordar que la ambición máxima del purpurado es asumir el control absoluto de la Universidad Católica, deseo que se ha visto frustrado por la acción eficaz de nuestra primera casa de estudios. Pero todo esto no sería más que fruto de un dudoso exceso de celo, comprensible en un arzobispo de escasos recursos teológicos y torpeza pastoral si es que además Cipriani no hubiera sido un permanente obstáculo de las investigaciones al régimen dictatorial y corrupto de Fujimori, un decidido enemigo de la Comisión de la Verdad y Reconciliación y un obcecado enemigo de la defensa de los derechos humanos .

Destruye lo que no comprendes, parece ser el lema pastoral del cardenal Juan Luis. Sus berrinches acompañados de improperios, que son bastante conocidos y divulgados sotto voce por los temerosos clérigos que lo rodean, se han dirigido de modo sistemático contra cualquier teología que exija un mínimo de esfuerzo intelectual. Un razonamiento complejo que requiera comprender dos proposiciones antes de arribar a una conclusión parece que desafía la simple fe del pastor y pone en figurillas a sus asesores teológicos. Cipriani se ha convertido en la Iglesia peruana en un alma gemela del general Artola de los años de la dictadura militar; prueba de esto es que en los corredores del palacio arzobispal y la Facultad de Teología circulan varios chistes sobre el escaso cacumen del mitrado. Por otro lado esto no tuviera nada de objetable si sólo se tratara de desinformación teológica o una simple deficiencia de formación, después de todo el razonamiento teológico es deseable pero no es causa eficiente para lograr la santidad ni para el ejercicio de pastor. Sin embargo, incapacidad teológica y ausencia de humildad, sí son una combinación fatal, deplorable en los llamados príncipes de la Iglesia.

Ya que la situación actual de la exégesis católica exige comprensión de la complejidad de la Sagrada Escritura, espíritu orante para estar en sintonía con la Palabra y una vasta información respecto de los documentos que emanan de la Pontificia Comisión Bíblica, requisitos que no están al alcance de monseñor Cipriani, no es de extrañar que sus temores y ansiedades se hayan dirigido desde hace más de una década al primer biblista del Perú, el padre Eduardo Arens, sacerdote religioso marianista, doctor en teología bíblica en la Universidad de Friburgo y destacado miembro de diversas asociaciones internacionales de biblistas. El recorrido intelectual y la integridad moral del padre Eduardo son tan reconocidas en el mundo eclesial peruano y más allá de nuestras fronteras, entre los religiosos y laicos estudiosos de la Biblia como la dureza de mente y corazón del cardenal de Lima. Eduardo Arens ha influido positivamente en la formación teológica de numerosas generaciones de religiosos y sacerdotes que hoy día ejercemos la docencia y diversidad de ministerios en la Iglesia peruana, que ha encendido los celos cardenalicios al punto de despojar a Eduardo de la missio canonica, es decir del permiso para enseñar. Una comunicación de agosto del presente año al Instituto Teológico Juan XXIII de Lima, donde Eduardo Arens es profesor principal de Biblia, ha sido el manotazo que Cipriani ha lanzado al religioso marianista, afirmando que no le concederá el permiso de enseñar de forma tajante y definitiva. Esta orden cuidadosamente protegida por las discretas autoridades de esa institución, no podía mantenerse más tiempo en secreto porque el Instituto Teológico Juan XXIII es una institución dependiente de los superiores religiosos que envían a estudiar a sus jóvenes a tal centro teológico y por medio de estos provinciales conozco no sólo la inminente prohibición de enseñar a Eduardo sino además a otros dos expertos profesores.

La campaña de Cipriani contra Eduardo no tiene sólo carácter doctrinal. ¡Qué saludable sería para el mundo teológico limeño un diálogo de un arzobispo preocupado por la ortodoxia y de un biblista que desgrana las riquezas de la Palabra de Dios, esto llenaría los balcones de la Plaza Mayor de Lima! Pero es imposible de esperar esta actitud dialogal en Cipriani cuya única herramienta pastoral es la amenaza y que jamás se atrevería ni siquiera a poner por escrito las razones teológicas por las que se opone con tanta saña a un teólogo. En el fondo la enemistad del cardenal con Eduardo hunde sus raíces en la ambición. Se debe a que, como sacerdote marianista, Arens predica en la parroquia de Santa María Reina, cuya audiencia incluye a un poderoso sector económico y político de la ciudad y a muchas otras personas que, aunque ya no viven entre San Isidro y Miraflores, acuden a la misa de Eduardo desde otros barrios igualmente ricos, porque prefieren el estilo directo, franco y agudo de Eduardo que dista mucho de los aburridos sermones de corte moralista y reprochador, que cada vez son más frecuentes en Lima, incluidos los del señor cardenal. La predicación de Eduardo es sobre todo humana y recurre al Evangelio para iluminar la vida común de los fieles y animarlos a practicar la fe más allá de los reclinatorios de la iglesia ¿Qué podría incomodar más a Juan Luis que el padre Arens tenga como auditorio a la clase social que más apetecen controlar el Opus Dei y otros grupos afines por medio de su jerarca? ¿Enrojecerán las mejillas del cardenal, como su vistoso traje, cuando escucha los sermones que hace grabar por sus espías en Santa María Reina, al comprobar la integridad de Eduardo quien se dirige a los poderosos de la ciudad después de ejercer una labor ministerial en los pueblos jóvenes de Lima? Algunos allegados me han comentado que el retiro de la missio canonica a Eduardo Arens fue un viejo anhelo del cardenal quien ha afirmado que no le permitirá enseñar “mientras sea arzobispo de Lima”. Es obvio que Juan Luis no conoce lo que es la conversión, porque si actuara pastoralmente dejaría por lo menos la oportunidad de una futura corrección y reconciliación. Pero es obvio que aquí se trata de iras no santas.

He comentado con muchos amigos y amigas que tienen autoridad en la Iglesia peruana de la triste situación que los jóvenes religiosos y seminaristas van a experimentar el próximo año si se le cierran las puertas de las aulas a nuestro más ilustre biblista. Eduardo ama la enseñanza pero sobre todo detesta la mediocridad y nunca va a dejar de ser una presencia incómoda para todos los que se contentan con verdades de conveniencia y prefieren no enojar a los jerarcas de turno. Mis amigos y colegas han demostrado simpatía por Eduardo y vergüenza por las herramientas a las que recurre la máxima autoridad de la arquidiócesis de Lima. Pero también ellos me han explicado que si se oponen públicamente a las medidas autoritarias del cardenal, se exponen a sufrir las mismas consecuencias y poner en peligro su permanencia en el territorio de la arquidiócesis de Lima lo que pondría también en vilo las numerosas obras sociales, en particular la educación, salud y alimentación de los más pobres. ¡Qué lástima que el temor sea el único sentimiento que provoca un pastor sobre su grey!

Si Cipriani estuviese convencido que Eduardo está equivocado teológicamente se preocuparía por ayudarlo a corregir sus errores, pero esta jamás ha sido su actitud, a pesar de que Eduardo solicitó por diversos canales la posibilidad del diálogo. Más bien ha planificado destruir a la persona y no combatir con razones la incómoda predicación en el templo o en las aulas. Así se ha hecho merecedor del reproche del profeta Ezequiel a los pastores perversos: “No fortalecen a las ovejas débiles, no curan a las que están enfermas, no vendan a las que están heridas, no traen a las descarriadas, ni buscan a las perdidas, sino que las dominan con dureza y crueldad” (Ez 34,4). Ya no vivo en Lima, si no pegaría con cinta adhesiva esta carta en la puerta de la catedral. Para mí, como religioso peruano, una prohibición a otro religioso sin mediaciones dialogales no es sólo un insulto a la inteligencia, también es un acto contrario a la dignidad de la vida religiosa.

Convoco a la multitud de exalumnos de Eduardo, muchos de ellos en posición de importancia en la Iglesia peruana, que expresemos de todos los modos posibles nuestro rechazo a las actitudes intransigentes e infantiles de quien anhela con tantas ganas llegar a ser el Presidente de la Conferencia Episcopal Peruana, cargo que sus hermanos obispos han visto imprudente dejar en manos de tan irascible prelado. Cipriani suele esgrimir el argumento que si se le critica a él, se critica a la Iglesia. No. Esta carta no es de crítica a la Iglesia, es de crítica a un pastor con nombre propio y sólo está en esa posición por un fatal error.

Hugo Cáceres Guinet, cfc